La cosa odiosa (hateful) e al tempo stesso adorabile di Quentin Tarantino regista è che sai che ci ricascherà, sempre e comunque, nel girare un film infischiandosene degli attenti membri della platea e dei soloni da penna (o da tastiera): basta solo che quel film lo possa far godere come un nevrotico moviemaker ventenne agli esordi. Basta insomma che sia l’ideale trastullo in grado di soddisfare appieno il suo sconfinato immaginario cinematografico e non: e per un ormai brevettato sillogismo, se Quentin gode nel girare, gode con lui anche lo spettatore. A dispetto della critica made in USA non particolarmente generosa nei suoi confronti e del solito snobismo dell’Academy, The hateful eight si rivela un formidabile concerto polisinfonico e policromatico, travestito da film di genere (ancora il western, come per Django Unchained), capace però in realtà di andare ben oltre il genere stesso, come solo un autore del suo talento riesce a fare.
La vicenda, al solito scandita in capitoli e racchiusa nel glorioso Ultra Panavision 70, si sviluppa dapprima sull’innevata e ostile via per la città di Red Rock, dove sono diretti il cacciatore di taglie John Ruth (Kurt Russell) e la sua prigioniera Daisy Domergue (Jennifer Jason Leigh), su cui pende una taglia di dieci mila dollari e che è destinata all’impiccagione una volta giunti in città. Nel tragitto si uniscono il maggiore Marquis Warren (Samuel L. Jackson), altro bounty hunter ed ex membro dell’Unione, e Chris Mannix (Walton Goggins), sedicente sceriffo di Red Rock. A causa di una tempesta di neve, i viaggiatori si riparano presso l’emporio di Minnie, dove incontrano altri viandanti, maschere con le quali formeranno ben presto un gioco delle parti: il boia Oswaldo Mobray (Tim Roth), Bob il messicano (Demian Bichir), il mandriano Joe Gage (Michael Madsen) e l’ex generale confederato Sanford Smithers (Bruce Dern). Tra inganni e false identità, l’emporio che ospita gli otto viaggiatori diviene ben presto un’ordalia.
Il cinema di Quentin Tarantino – e The hateful eight non fa certo eccezione – è fatto di frammenti di un universo a sé stante, in cui vigono regole e convenzioni che hanno una base logica e coerente solo se stretti tra il regista stesso e l’occhio (e il background culturale) di chi guarda. L’ottavo film di Tarantino (e con Four Rooms scatta l’accostamento niente affatto casuale con 8½) è un porto franco in cui convergono elementi e tematiche ricorrenti della poetica tarantiniana, in un contenitore lungo quasi tre ore dominato come sempre dal fattore principale, la violenza. Un tour de force in cui le otto (e più) maschere si sbranano peggio che ne Le iene, leitomotiv di un esercizio di stile maturo e travolgente, visivamente caratterizzato dal mirabile contrasto tra il bianco della neve e i colori scuri dell’emporio in cui ha luogo quasi tutta la vicenda, nonché impreziosito dall’evocativa soundtrack firmata Morricone candidata all’Oscar. Un po’ tragedia elisabettiana, un po’ Le iene, The hateful eight è inoltre palese debitore, per struttura e utilizzo delle maschere, dei Dieci piccoli indiani di Agatha Christie, con la differenza che anziché a Nigger Island, ci si trova in un emporio sperduto del Wyoming.
Tarantino si diverte poi a spostare sempre un po’ più in là i limiti, per così dire, etici del suo cinema: se in Django Unchained la donna costituiva il virtuoso motore dell’azione che avrebbe portato il protagonista alla sua salvezza, e nel cinema classico rappresentava un trofeo umano, in The hateful eight Daisy Domergue (una J. J. Leigh semplicemente da Oscar) è il casus belli volgare e dissoluto, preda per ciò che rappresenta (una lauta ricompensa) e non per ciò che è. La spinta in avanti si rivela poi con maggior foga nel monologo (verità o finzione?) di un impagabile Samuel L. Jackson, doppiato dal solito straordinario Luca Ward, in una scena tremenda e al tempo stesso suggestiva, accompagnata dalle note di una sgangherata versione di Silent Night suonata al piano. I limiti spostati sono tuttavia anche quelli spaziali e temporali: The hateful eight sembra a tratti una dilatazione della magistrale scena della taverna in Bastardi senza gloria. Il richiamo alle sue precedenti opere (si è già detto de Le iene) non deve però far pensare allo sterile (auto)citazionismo di cui spesso Tarantino viene accusato: se c’è infatti un film del regista di Knoxville in grado di rimanere in piedi privandosi – anche se non completamente – del gusto della citazione cinefila, questo è proprio The hateful eight.
La citazione cinefila non pregiudica però la caterva di riferimenti storico-sociali che Quentin riserva agli Stati Uniti, fotografati proprio nella loro culla, alla fine della Guerra civile. “The hateful eight sarà il mio film più politico“, aveva dichiarato: nulla di più vero. Quando la maschera di (mirabile) autoreferenzialità cade, l’ottavo film di Tarantino racconta la natura dell’America, fiera, violenta, razzistella e anche oggi attaccata quasi morbosamente alla propria storia. Sarà anche per il geniale tocco d’ironia sulla lettera di Lincoln (vero e proprio McGuffin) che la critica made in USA lo ha punito. Al diavolo loro e al diavolo l’Academy, andatelo a vedere.
[Ph. Credits: Robert Richardson/The Weinstein Company]