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Era il 2011 quando sulle pagine di alcuni quotidiani compariva una notizia per certi versi davvero incredibile: lei, Anita Ekberg che dichiarava di essere in miseria. La donna svedese che aveva affascinato il mondo intero con la sua bellezza dolce quanto esplosiva, con la sua intensità di sguardi e femminilità prestata al grande schermo e in quella scena nella fontana di Trevi che ha incantato generazioni, sembrava impossibile ma era rimasta sola e senza più risorse finanziarie.

Alla Fondazione Fellini di Rimini era pervenuta una richiesta dal commercialista romano Massimo Morais, nominato dal Tribunale di Velletri amministratore di sostegno della Ekberg, di un sostegno economico. Si apprendeva che Anita Ekberg risiedeva in una casa di cura dei Castelli Romani, affetta dai postumi di una frattura al femore che ormai le aveva tolto l’autonomia. Solitudine, indigenza, non autosufficienza. Incredibile.

“Vuol sapere se mi sento un po’ sola? Sì, un po’ sì. Ma non ho rimpianti. Ho amato, pianto, sono stata pazza di felicità. Ho vinto e ho perso. Non ho un marito, non ho figli”.

Così Anita Ekberg rispondeva al giornalista del Corriere della sera Fabrizio Ronconea da un reparto di lungodegenza alla vigilia dei sui 80 anni. Parabola infelice per una donna e attrice tanto amata e ricordata. In quanti avevano perso la testa per lei? Tanti, da Rossellini a Frank Sinatra, da Dino Risi all’avvocato Gianni Agnelli. E poi la decadenza. L’amarezza per una fine indecorosa, anche se poi sembrava che lei stessa avesse accantonato ogni speranza e si fosse immersa nel suo destino di fine solitaria in modo dignitoso, rimane però a tutti quelli che l’hanno amata e che ne sono rimasti affascinati indelebilmente da quella scena che rimarrà nell’immaginario comune, La scena della “Dolce vita” di Fellini.

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