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Cosa spinge un individuo a comprare e poi leggere un libro? Le risposte possono essere tante. Possiamo rimanere colpiti dal titolo, dal nome dell’autore che magari in quel momento è il più di nicchia fra i tanti; oppure dalla copertina, fatta di colori e immagini, che ci cattura, ci prende e ci invita a rimuovere il libro dallo scaffale, vai a vedere capitato per sbaglio sotto i nostri occhi durante le erranti passeggiate all’interno di una libreria o biblioteca. Senza contare che ultimamente va di moda comprare un libro solo perché è stato girato un film uscito nei cinema. Insomma, come direbbe il filosofo Gadamer, ci avviciniamo a un libro perché siamo spinti da pregiudizi.

E quali sono i pregiudizi, o le motivazioni sopra elencate più le tante altre di natura del tutto personale, che ci spingono a tirar fuori dallo scaffale di una libreria, e poi a comprare, pagare cifre modeste sotto questi chiari di luna di crisi, un libro di Thomas Pynchon? E cosa spinge un individuo a scrivere una breve recensione su il libro intitolato L’Arcobaleno della Gravità? Soprattutto, cosa spinge a parlare di questo libro definito, citando testualmente la frase scritta dal Corriere della Sera nella quarta di copertina dell’edizione Bur, “il più enciclopedico, esoterico, erotico di tutti i libri-mondo mai scritti”?; e per finire, chi è Thomas Pynchon?
Nessuno lo sa. Thomas Pynchon è uno scrittore invisibile, che si nasconde per motivi che solo lui è a conoscenza, neanche Dio. Invisibilità che, però, ha alimentato la sua leggenda; invisibilità che ha portato ai molti a comprare e leggere i suoi libri, arrivando anche a difendere le sue opere a causa della critica molto dura.
Tuttavia, questa invisibilità è diventata l’arma preferita di Thomas Pynchon, perché, se con lui non si può avere dialogo, solo leggendo le sue opere possiamo avere un colloquio diretto. La particolarità di Thomas Pynchon è quella di essere un autore fortemente invadente. E come se piombasse all’improvviso dalla finestra, come farebbe un ragazzo innamorato con la propria fidanzata, dopo aver quasi rotto la finestra a sassolinate. Lui ci chiama, lo facciamo entrare, lo accogliamo e ci inizia a dire tutto quello che pensa sul mondo, sull’esistenza umana, sulla vita. Ovviamente le sue parole prendono forma solo quando giriamo le pagine dei suoi libri. Ed è proprio quello che accade una volta letto L’Arcobaleno della Gravità.

L’Arcobaleno della Gravità è un libro ingombrante, sia fisicamente, perché composto da più di mille pagine, sia tematicamente, perché Pynchon mette in gioco tutto il suo repertorio conoscitivo: dallo spiritualismo alla statistica, dall’ingegneria chimica alla propulsione missilistica, dallo spionaggio alla stregoneria, e via dicendo. Ma Pynchon, tutto questo, non lo fa perché vuol far notare al mondo intero che lui è bravo a scrivere, che lui è uno dei pionieri (insieme ai vari Don DeLillo, John Barth) del postmodernismo, oppure che lui è Thomas Pynchon in virtù di una esaltazione ciceroniana. Lo fa semplicemente in virtù di un dialogo esistenziale che cerca di creare con il lettore. Dialogo che ne L’Arcobaleno della Gravità appare ermetico, molto complesso, a tratti difficile da capire, quasi all’apice del non-sense.
Pubblicato nel 1973, dieci anni dopo la crisi missilistica a Cuba, L’Arcobaleno della Gravità tocca la coscienza interiore, psicologica di chi ha il coraggio sadomasochista di leggerlo. Non esiste una trama ben precisa, definita come in un normale romanzo. Ci sono solo frammenti della stessa, narrati attraverso le storie dei singoli protagonisti che, nonostante le loro diversità fisiche, ideologiche, psicologiche, per tutto il periodo di fine Seconda Guerra Mondiale, viaggiano, erranti, spinti da una motivazione in comune: la ricerca di un razzo. Ma non di un semplice razzo che possiamo vedere in tv, trasmesso nella cronache internazionali dai telegiornali. Ma del Razzo, l’arma perfetta in assoluto, lo 00000 come viene chiamata, capace di fare lunghi viaggi e distruggere intere città.

La prima edizione di 'Gravity's Rainbow', curata da Viking (1973)
La prima edizione di ‘Gravity’s Rainbow’, curata da Viking (1973)

Per tutto il romanzo la domanda che ci si pone è perché. Perché proprio un Razzo? Perché un’arma di morte, di distruzione, capace, con un sibilo, di invadere la tua vita annientandola? La risposta concreta non c’è, ma perché è proprio Thomas Pynchon a non inserirla. Tramite questo espediente, però, L’Arcobaleno della Gravità mette a nudo l’umanità. Un’umanità assente, scarnificata dalle sue condotte etiche, morali, religiose, civili, tant’è che si rifugia nell’unica certezza che ha: il Razzo, appunto. Questo essere che arriva ad avere una importanza religiosa, metafisica, capace, con il suo potere, di prendere le sembianze di un Dio cattivo o misericordioso, capace di distruggerti o di salvarti. E, parafrasando Engels, il Razzo è una proiezione dell’uomo, in quanto è creato dall’umanità che si rifugia in esso (vedi la voglia assoluta da parte dei protagonisti di impadronirsi a tutti i costi del Razzo), e quell’umanità, quei personaggi, diventano pezzi che si assemblano nella costruzione di questa arma primordiale.
L’Arcobaleno della Gravità è un libro che parte in un mondo e termina in un altro. Inizia con una chiave di lettura surreale (da notare che per buona parte del romanzo si crede che le esplosioni delle V-2 siano dovute ai rapporti sessuali di Slothrop) e termina che smaschera le reali intenzioni dell’opera. Per giunta la trama si assembla pagina dopo pagina e il passaggio da surreale a concreto avviene gradualmente, come se percorresse un andamento parabolico. Da tener presente che rispetta le intenzioni del titolo stesso, in quanto Arcobaleno della Gravità viene paragonato al movimento che compie un comune razzo.

Tramite l’espediente di una trama non ben definita, gli occhi del lettore sono rivolti altrove. Il tutto colpisce la coscienza del lettore stesso. E il genio di Pynchon risiede proprio in questo: invadere la nostra coscienza, scuoterla e farla prendere forma. Per carità, non vogliamo alludere al fatto che L’Arcobaleno della Gravità sia quel classico libro anticonformista che ti fa gridare “abbasso al potere”. Semplicemente fa riflettere sulla realtà, sul mondo, sulla vita. Sul fatto che l’umanità sia annichilita, paranoica, dinanzi al mondo, all’oggetto, nel caso del libro, al Razzo.
Thomas Pynchon è uno scrittore che nella sua pazzia riesce a vedere lungo, ed è la dimostrazione più lampante di come una semplice penna possa cambiare e comunicare tanto. La sua invisibilità ha fatto in modo che diventasse una specie di profeta, e non una squallida icona letteraria da usare.

Come abbiamo avuto modo di far notare, L’Arcobaleno della Gravità è un’opera dalla indole comunicativa logorroica tra scrittore-lettore. Sfogliandolo, automaticamente parla. E quando decidiamo di chiuderlo perché, magari, abbiamo letto tanto e dobbiamo ritornare alla vita di sempre, Thomas Pynchon è sempre lì ad aspettarti, pronto a violentare il nostro Io interiore e a salvarci dalla profonda abissale realtà, sempre più vuota, annichilita, noiosa, paranoica. E a pezzi.

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