“CARO, sono Michele Serra. Sono quello in carne e ossa, quello che vedo ogni mattina davanti allo specchio, quello che, nel bene e nel male, mi sento di definire “io”. Tu invece sei il mio avatar, il mio clone, il mio pseudo, quello che ha aperto una pagina Facebook […]“.
Con questo incipit Michele Serra, noto autore recentemente in libreria con Gli Sdraiati, in cui un padre parla al figlio diciannovenne per condividere con lui le sue riflessioni sulla distanza intergenerazionale, dà voce su Repubblica ad uno sfogo cortese nei confronti di chi si è appropriato della sua identità su Facebook e Twitter da tempo ormai.
“Lo hai fatto a mio nome e con la mia faccia. Su quella pagina, ormai da anni, si riversano pensieri gentili e/o insulti orribili che non potranno avere mai risposta, almeno non da me: per il semplice fatto che non sono io, quel Non sono neanche il falso Michele Serra che twitta a mio nome. Così almeno mi dicono. Perché in quel mondo, vociante e vivissimo, fibrillante di parole e di persone, io non ci abito. Non lo frequento. Non per disprezzo o preclusione ideologica o scelta culturale, macché. Per un motivo molto più banale e credo comprensibile a tutti: perché già adesso, in conseguenza del mio mestiere, considero di avere una socialità esondante, che a volte mi gratifica e a volte mi opprime; e sentendomi inadeguato a fare fronte ai miei attuali contatti, ai miei affetti, ai miei piaceri e ai miei doveri, non desidero aggiungere altre porte e finestre alla mia casa mediatica, che è già sulla pubblica via, a disposizione dei tanti che mi scrivono per comunicarmi dissenso o assenso, ostilità o concordia. Ho già amici quanti ne bastano. Nemici anche. E di parole in pubblico ne uso, e forse ne spreco, già in abbondanza”. Si legge questo nella lettera rivolta dall’autore al misterioso alias, dimostrando netto distacco verso la realtà dei social network che con prepotenza lo vede ospite inconsapevole“.
Continua la lettera:
“Perché dunque ti scrivo, a te falso me dei social network? Per chiederti, nella sola maniera pubblica che mi è propria (la pagina di un giornale), se per favore puoi smetterla di usare abusivamente il mio nome e il mio volto. Se per piacere puoi morire in quanto me, e vivere in quanto te. Oppure essere te, per ragioni che non posso e non voglio sapere, ti pesa al punto di non volerlo più essere? E nel caso, comunque: io che cosa c’entro?
Io vivo delle mie parole. Sono il mio mestiere. Ho scritto chissà quante inutilità e scempiaggini prima che le mie parole (e mi sembrò un miracolo) cominciassero a trovare un varco negli altri, a essere lette e prese in considerazione. E tu? Che come spiritosa scorciatoia o per volontà di dolo o per sciatta pigrizia trovi comodo comparire in pubblico spacciandoti per me, cioè per un altro: hai mai preso in considerazione l’ipotesi di mettere in conto solo a te stesso le tue parole, e di pagarne il prezzo e/o di ricavarne meriti così come faccio io da quasi quarant’anni? Oppure quello che ti piace, di questo tuo imbroglio identitario, è proprio la gratuità, la possibilità di parlare a costo zero senza pagare mai un conto, senza rischiare la faccia, facendola sempre franca?“.
L’autore prosegue con un chiaro riferimento alla scarsa tutela della privacy che i social network riservano ai loro utenti e l’impossibilità di denunciare chi dell’identità altrui ne fa il proprio passepartout. Si legge, infatti:
“Di peggio c’è questo: che tutte le persone pratiche del web alle quali ho chiesto consigli sul da farsi mi hanno dato più o meno la stessa risposta. O ti rivolgi alla polizia postale (e non mi sento di fare perdere tempo a chi ha questioni più gravi da risolvere) oppure apri la tua pagina Facebook, il tuo profilo Twitter. «È sempre pericoloso e sbagliato lasciare libera, sul web, la propria identità», mi ha detto un ragazzo gentile che in quel pianeta sa come si vive. E dunque, se ho capito bene: i social network sono i primi club al mondo, i primi nella storia umana, ai quali è obbligatorio essere iscritti? Perché se non ti iscrivi, un altro te o diversi altri te prenderanno il posto che ti è stato assegnato facendo del tuo nome l’uso che preferiscono? Esiste dunque una dimensione nella quale a ciascuno di noi corrisponde un pupazzo inerte con la tua faccia e il tuo nome, e il primo che arriva può farne l’uso che vuole?
Ne discende una domanda che mi sembra, e spero di non esagerare, semplicemente spaventosa: esiste ancora la libertà di NON avere una pagina Facebook né un profilo Twitter? O subito qualcuno, più ferrato di te, arriverà a spiegarti che sei tu che non hai capito funzione e cultura del web, non sai usarlo, non ne sai approfittare? Potrebbe dirmi, quel qualcuno molto più ferrato di me, se è davvero così sbagliata la sensazione di essere stati arruolati già tutti alla nascita, e per tutta la vita, in quell’esercito per altro così utile e remunerativo per i controllori dei nostri gusti e dei nostri consumi? Che dite, abbiamo ancora la possibilità di disertare, o è troppo tardi?“.
Conclude Michele Serra:
“E se uno come me, che almeno ha la fortuna di poter dire qui e oggi a qualche centinaio di migliaia di persone: NON sono sui social network, qualunque traccia di me troviate sui social NON è mia; che difese può avere, invece, chiunque abbia meno notorietà mediatica della mia, e per infinite ragioni si trovi doppiato e falsificato in rete? Dobbiamo fare la coda, a milioni, davanti alla polizia postale (povera polizia postale…) oppure, da quell’ingenuo che sono, posso sperare che tu, mio avatar, mio clone, mio pseudo, leggendo questa lettera aperta accetti di essere solamente te stesso, e a nome tuo ti avventuri in quel mare procelloso? Hai presente la libertà, e non sto parlando della mia, sto parlando della tua?“.
Come Serra, altri si saranno imbattuti nel proprio “io” rubato. Serra tramite Repubblica ha detto basta. Noi riportiamo il suo appello.
[Fonte: Repubblica.it]