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Gomorra è la serie che non ti aspetti. Ispirata al romanzo di denuncia di Roberto Saviano, riesce a farci vivere la crudeltà autentica della Camorra, i delitti, i tradimenti, l’infamia di uomini che hanno deposto ogni umanità in nome del denaro e del potere. Eppure riesce anche a far nascere negli spettatori un legame empatico con i protagonisti, efferati assassini eppure uomini, in fondo. Non ti aspetti l’empatia, la simpatia, il legame con individui che dovremmo solo disprezzare. Eppure è così.

Emblema di questa doppia anima dei personaggi e del rapporto ambivalente che stabiliamo con loro è la parabola di anabasi e catabasi di Gennaro Savastano.

Figlio del boss, don Pietro, giovane bonaccione, Genny sembra all’inizio un pesce fuor d’acqua, invischiato in una realtà che lo affascina sì, ma che insieme lo spaventa. Eppure sa di non poter scappare, la vita è questa, e per lui non c’è altra via se non quella che può percorrere nell’universo di fascinazione e insieme repulsione che è Gomorra. L’attore che presta il volto a Genny, Salvatore Esposito, in occasione della conclusione della seconda serie ha postato un’immagine che si fa perfetta sintesi di questo mondo in cui l’unico principio valido e universale sembra essere l’introiezione della violenza: due immagini accostate indicano l’evoluzione di un buono in cattivo.

Lo stesso Genny che nella prima stagione non era riuscito a sparare nemmeno a un disperato senza alcuna possibilità di redenzione, lo stesso Genny che spaventato aveva fallito il colpo e lasciato la responsabilità dell’ennesimo assassinio all’amico Ciro, deve ora assumersi il peso di una responsabilità ben più grossa: rinnegare il padre e armare la mano dell’uomo artefice della morte di sua madre, sperando in un ultimo definitivo atto catartico. Ed è forse qui il segreto del successo di Gomorra: rifiutiamo la violenza a livello sociale, ma la coltiviamo dentro di noi, a livello più o meno inconscio, la sfoghiamo in forme più o meno “legalizzate” o ci accontentiamo di osservarla sperimentata da altri. Godiamo di una soddisfazione atavica nel vederla perpetrata all’infinito, anche solo attraverso uno schermo televisivo. C’è un po’ di Genny Savastano dentro ognuno di noi, solo che non tutti hanno il coraggio di ammetterlo.

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