C’è sempre qualcosa di romantico in un film che si ispira a uno di quei manga anni ’80 che ci piaceva guardare da bambini in tv. Ancor di più se si tratta di un film di genere, sui supereroi, italiano, indipendente e low budget, diventato uno di quei casi rari capaci di mettere d’accordo pubblico e critica del Bel Paese. Parliamo di Lo Chiamavano Jeeg Robot, il caso cinematografico italiano dell’anno: tre milioni al box office e 16 candidature ai David di Donatello, dove parte praticamente da favorito. Una scommessa (rischiosa) ampiamente vinta Gabriele Mainetti al suo lungometraggio d’esordio che tornerà sullo schermo, dal 21 aprile, per celebrare la vittoria del Premio Ettore Scola come Migliore Opera Prima durante il recente Bif&st di Bari nonché il successo ai David, comunque vada.
Lo chiamavano Jeeg Robot racconta la storia di Enzo Ceccotti (Claudio Santamaria), un delinquente di borgata che sopravvive grazie a piccoli furti, fino al giorno in cui, durante una fuga, è costretto a tuffarsi nel Tevere ed entra involontariamente in contatto con una sostanza radioattiva. Da quel momento Enzo si ritroverà dotato di una forza sovraumana che non tarderà molto ad usare per dare una svolta alla sua carriera da delinquente. A Roma, intanto, è in atto una lotta tra clan criminali e questo mondo pericoloso finirà per incrociarsi alla quotidianità di Enzo, alle prese anche con i sentimenti che lo legano ad Alessia (Ilenia Pastorelli), una giovane, depressa per la morte della madre, convinta che quell’uomo sia Hiroshi Shiba, l’eroe del famoso anime giapponese Jeeg Robot d’acciaio, a lei tanto caro.
Il film è ambientato a Roma, la città eterna, protagonista consumata di tante iconiche sequenze di celluloide. Le location monumentali della Capitale non mancano, ma sono sempre colte di sfuggita, quasi ai bordi della scena. C’è il Colosseo, la sequenza a perdifiato in fuga dalla polizia, da Campo Marzio a Castel Sant’Angelo, e poi giù fin dentro al Tevere, lo Stadio Olimpico e il Ponte della Musica. Ma dimenticatevi la Roma da cartolina, perché quella che vedrete in Lo Chiamavano Jeeg Roobot è una città quasi irriconoscibile, periferica, degradata, stretta d’assedio da attacchi dinamitardi e una malavita violenta che agisce indisturbata. La location principale del film è soprattutto Tor bella monaca, frazione periferica ad est di Roma, incastonata tra via Casilina e il Grande Raccordo Anulare, spesso salita agli onori della cronaca nera.
“Il quartiere di Tor Bella Monaca ricorre molto in quel che giro, lo trovo molto cinematografico, con quelle torri avvolte dal verde. Anche se poi la cosa più importante per me era evitare il dramma sociale, cioè guardare quelle realtà con sguardo borghese, giudicandola. Mi piace vedere le persone in difficoltà non mostrandole affrante, ma con più voglia e capacità di sognare degli altri”, ha detto in un’intervista a Wired il regista Mainetti che assieme allo scenografo, Massimiliano Sturiale, è andato alla ricerca di location che trasudassero vita vissuta, luoghi reali, ordinari e difficili, ma da rivestire di un’atmosfera fantastica, quasi surreale, in cui però non si perdesse mai di vista quell’umanità che si tinge quasi di poesia nella scena ambientata al Lunapark di Torvaianica dove Enzo con una mano fa girare la ruota panoramica solo per Alessia.