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Tredici concerti. Tredici Sold out.
Non sono l’ennesimo settantenne che si crede rock o che vive di un passato “intramontabile” continuando a fabbricare dischi sempre uguali.
Non sono la ragazzina lanciata dal talent che canta banalità per il suo pubblico di sospiranti quattordicenni deluse dall’amore.
Non sono ilrapper continuamente rilanciato da radio e tv, a spese della discografica che lo produce.

Sono un gruppo di ragazzi bolognesi sotto i 30 anni. Sono Lo Stato Sociale. Un disco uscito a giugno entrato subito nella top 10 di Itunes, con due singoli due volte primi in classifica. E un tour, concluso a Lecce il 13 dicembre, tra i più partecipati della storia italiana degli ultimi anni.

Un vero fenomeno, una piccola rivoluzione nella musica italiana. Ma non li vedrete al Tg1, nè a Sanremo.
Sarà che come dicono loro, le rivoluzioni non passano in tv. Bisogna andarsele a cercare, a guadagnare. Nei chilometri di strada, negli alberghi sporchi, nelle luci dei palchi che fanno sudare, nelle voci di chi al concerto c’è andato e è tornato a casa con 38 di febbre, contento. Nelle facce sfatte del giorno dopo. Negli after improvvisati a San Lorenzo, mescolandosi tra la gente. Perché li erano niente di più di cinque ragazzi che contro ogni imperativo economico vigente hanno scelto di vivere di musica, che in fondo, non è una cosa seria. E’ una cosa serissima.

Quello che hanno appena concluso è un tour che lascia il segno, ecco alcuni motivi, molto personali sulle ragioni di questo successo:

Perché è un miracolo in un panorama musicale come quello Italiano, dove l’indipendente resta troppo spesso chiuso nei suoi circoli e il commerciale si nutre da anni delle stesse formule riciclando facce e nomi senza che la musica cambi davvero. Mai.

Perché un biglietto per due ore di musica buona costava come un cocktail in discoteca, o una cover dell’iphone con le orecchie da coniglio, o come una maglietta.

Perché in un solo concerto potevi ballare lo ska di “forse più tardi un mango adesso” e il rock melodico di “io te e carlo Marx” e scivolare nel raggae con “la musica non è una cosa seria” e poi passare all’elettronica di “Il Sulografo e la principessa ballerina”.

Perché vedere l’Atlantico pieno è un’emozione, e veder ballare insieme 3000 anime sulle note di “In due amore, in tre è una festa” lo è ancora di più.

Per Linea 30. Per la riflessione, per la memoria, per la verità ridotta a silenzio

Per le loro canzoni, che nascono spesso da storie personali ma che alla fine sono storie di tutti. Che parlano di noi, dell’amore come piccola rivoluzione delle nostre esistenze e del mondo intorno, della musica che ti salva e ti riduce in miseria,di quello che siamo, di quello che sogniamo di diventare. Testi che sono storie dell’Italia sotto i trent’anni, quella che non ci racconta nessuno.

Saranno pure l’Italia peggiore, come dicono loro. Quella degli eterni ragazzi, dei pericolosi ribelli, degli artisti che impietosiscono perché anche loro sono giovani disoccupati. E allora siamo tutti l’Italia peggiore e forse l’unico sogno che ci rimane è cercare di migliorarla almeno un po’. E il primo passo è ringraziarli, per averci regalato queste tredici grandi feste, in questo piccolo paese.

Per finire ecco alcune foto del Tour per alcune di queste, ringraziamo Daniele L.Bianchi:

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