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Gabriele Muccino, il giorno in cui è ricorso il quarantesimo anniversario dalla morte di Pier Paolo Pasolini, vuol gridare al mondo che è ancora un uomo di cinema e ci tiene a far sapere la sua su Pasolini. Anzi, sul Pasolini regista, specifica Muccino, che sottolinea invece di averlo amato come giornalista, pensatore e scrittore.

Quel che viene fuori è un giudizio impietoso: Muccino considera Pasolini un non-regista, che avrebbe impoverito il cinema italiano dell’epoca e dato l’illusione a molti non addetti ai lavori di potersi buttare a cuor leggero dietro la macchina da presa.

Ecco intanto l’intero post su Facebook firmato Muccino, poi cancellato qualche ora dopo dallo stesso regista (e noi ringraziamo Vanity Fair per il prezioso screenshot):

Muccino critica Pasolini: come se Balotelli criticasse Baggio

Ora, il problema non è rappresentato dalle critiche di Muccino al Pasolini regista: il problema sta nel fatto che il Muccino spettatore, oltreché uomo di cinema, non ha compreso granché del Pasolini regista. Il Pasolini cineasta non è un innovatore, nel senso tarantiniano del termine. Lui stesso, durante la lavorazione di Accattone, il suo esordio dietro la macchina da presa, ammetteva candidamente di non conoscere la differenza tra un piano sequenza e un altro tipo di inquadratura. Lo stesso Adelio Ferrero, grande critico cinematografico, nella sua monografia sull’autore bolognese (datata 1977), ammetteva che i primi lavori di Pasolini fossero tecnicamente sgrammaticati. Il punto è che per giudicare il cinema di Pasolini bisogna conoscere Pasolini. Un difetto per i pigri, un segno di profondità della sua poetica, per gli altri.

Prendete Teorema (1968) e guardatelo per cinque minuti: se non avete mai letto una pagina di o su Pasolini, inizierete a ridere a crepapelle per la recitazione apparentemente amatoriale, se non dilettantesca, degli interpreti. Bisogna appunto ignorare nel profondo il pensiero pasoliniano per non conoscere l’accezione poetica della sua produzione (anche prosastica), specie quella sul grande schermo. Pasolini sceglieva l’attore non per il suo modo di recitare ma per quello che era nella realtà. Così scelse Franco Citti per Accattone, così, allo stesso modo scelse le vittime di Salò (“Se ho scelto questi attori, è perché un po’ sono masochisti“) o Anna Magnani per Mamma Roma.

Già addetto ai lavori (firmò la sceneggiatura de Le notti di Cabiria, con Fellini), Pasolini prese la prima porta in faccia proprio dal regista romagnolo, prima entusiasta poi per nulla convinto di produrre Accattone, per l’ormai famosa tecnica sgrammaticata. Quella tecnica, affinata negli anni, regalerà poi agli annali immagini indelebili, come il figlio di Mamma Roma morente in carcere, il paesaggio di Matera a far da sfondo al Cristo di Matteo, l’infinita passeggiata di Totò e Ninetto in Uccellacci e uccellini o gli occhi di Maria Callas in Medea. Fotogrammi in cui è tangibile la passione di Pasolini per Pontormo o Rosso Fiorentino, a proposito di ribelli.

Come altri autori maledetti, come Ken Russell, Marco Ferreri o Béla Tarr, il Pasolini regista non può quindi essere scisso dal Pasolini uomo, autore e intellettuale. Nelle sue sequenze, così come nella sue pagine, c’è la sua umanità. Se poi un regista debba essere giudicato prevalentemente per la tecnica, allora Michael Bay sarebbe nella Top 10 contemporanea mondiale e Uwe Boll tra i primi cinquanta.

Muccino, poi, parla di stile: è opportuno però prendere consapevolezza del fatto che la mezz’ora scarsa de La ricotta (in Ro.Go.Pa.G.) sia, stilisticamente e poeticamente, superiore all’intera filmografia mucciniana. Per chiarirvi rapidamente le idee su cosa sia il cinema mucciniano, basta dare un’occhiata a questo confronto: il trailer di Quello che so sull’amore, film di Muccino del 2012, e una sequenza de La ricotta, con protagonista Orson Welles. Provate a trovare le differenze (e no, il primo non è un film di Nancy Meyers, è proprio Muccino senior).

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