Goditela ora, perché la vecchiaia – nella maggior parte dei casi – sarà un film dell’orrore.
Non è difficile, in fondo, il messaggio che reca con sé Youth – La giovinezza, la nuova fatica di Paolo Sorrentino presentata ieri nell’impegnativa cornice del Festival di Cannes. Un ammonimento, proveniente da un autore nemmeno cinquantenne, che pare arrivare – per parole e immagini – da un cineasta ai saluti. Perché dietro la sua irresistibile maschera barocca e la sua ironia intrisa di grottesco, come La grande bellezza, Youth è un’opera inevitabilmente nichilista.
Il film, a dir la verità, non è piaciuto a tutti a Cannes. ‘Opulento ma freddo’ lo hanno definito ma anche ‘Faticoso e artefatto’. Youth è artefatto nella misura in cui lo era, non solo il suo ingombrante predecessore, ma in generale il curriculum di Sorrentino, non solamente nel caso di This must be the place e Il divo, ma anche Le conseguenze dell’amore. Perché come prima cosa, al netto di tutti i giudizi soggettivi del caso, è palese ancora una volta l’immenso talento visivo del regista napoletano. Sorrentino possiede – coadiuvato da Luca Bigazzi – visioni da pittore classicista, alternando forti contrasti a elaborate sfumature, devastanti primi piani a taglienti piani-sequenza.
É un talento che serve all’autore di Youth per costruire un’opera in effetti statica ma mai noiosa, seria e mai seriosa. Un contrasto studiato e voluto e aiutato da un altro irriducibile dono che il regista Premio Oscar porta in dote: la capacità di mescolare, come nessun altro oggi, sublime e grottesco. E a differenza di molti altri contrasti che reggono il suo lavoro – bellezza/bruttezza, giovinezza/vecchiaia – i due elementi sembrano miracolosamente complementari tra loro. Sono immagini che arrivano con maggiore o minore immediatezza, a seconda della predisposizione dello spettatore: dal piede sinistro di Maradona (impersonato da un sosia oversize) alla giovanissima fisioterapista “imprigionata” nell’albergo, dalla mano rugosa e gloriosa di Jane Fonda sul volto di Harvey Keitel al catartico concerto finale.
Sorrentino insomma sperimenta, non teme la difficoltà di rendere in immagini l’assurdo della vita e di gestire un cast disomogeneo e ardito (Caine, Dano, Weisz, Keitel, Fonda). Soprattutto, si dimostra capace di sviluppare con genio e personalità una tematica che francamente sembrava aver detto tutto. Che ci piaccia o meno, è il miglior regista italiano sulla piazza: teniamocelo stretto.