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Foto: Pixabay

Partiamo da un presupposto: così come il peggior film è migliore del più brillante articolo di critica, allo stesso modo meglio un sequel scarso che un film di sana pianta mai realizzato. Stiamo attraversando un periodo in cui le poche idee rimaste vengono impiegate nella ricerca di un modo per spremere fino all’ultima stilla il successo di un progetto già realizzato precedentemente, anziché nel tentativo di creare nuove storie. Ciò non è necessariamente un male: se non esistessero i sequel il mio film preferito non sarebbe Il Padrino – Parte II; così come credo che il secondo capitolo de La famiglia Addams sia un capolavoro e che Mamma ho riperso l’aereo non sia così brutto come la critica lo ha dipinto. Senza dimenticare che uno dei migliori film del 2015, Mad Max: Fury Road, è un reboot. Certo, oggidì siamo nel campo del cinema commerciale: è difficile immaginare un seguito di una pellicola di Asghar Farhad. Il problema tuttavia non è esattamente nei troppi sequel realizzati, ma nei troppi sequel brutti realizzati.

Una statistica realizzata recentemente da Buzzfeed riporta un dato eloquente: oltre il 65% dei film giunti nelle sale statunitensi nello scorso periodo estivo rientra nel grande calderone che comprende sequel, reboot e remake. Una percentuale in costante crescita dal 2012 in poi. Se in aggiunta diamo un’occhiata ai sequel (ribadiamo: includiamo nella categoria pure reboot e remake) usciti negli ultimi mesi, si scorge un’alternanza tra grandi successi (Alla ricerca di Dory) e delusioni al botteghino (Star Trek: Beyond) e ancora clamorosi flop (Now you see me 2 e Independence Day: Resurgence). Dettaglio interessante: il seguito di un blockbuster non è automaticamente garanzia di guadagno. Anche perché ormai pure il pubblico, dopo la critica, ha constatato l’esistenza di una categoria: i sequel che non hanno ragione (se non quella puramente commerciale) di esistere. Il primo Now you see me era un giocattolino appena sufficiente, eppure il suo discreto successo è bastato per giustificarne un seguito. Per non parlare dello svogliatissimo Alice attraverso lo specchio, messo idealmente in cantiere già nei giorni in cui l’Alice in Wonderland di Tim Burton spadroneggiava ai botteghini di mezzo mondo. Gli ultimi due esempi hanno infatti deluso le aspettative al box-office. Una tendenza, a costo di apparire cinici, confortante.

C’è poi un’altra questione che riguarda i sequel: il vezzo di strutturare i franchise di successo come fossero puntate di serie tv. Lo scopo di un episodio pilota di un prodotto televisivo è quello di acchiappare attenzione e curiosità del pubblico, in maniera da potere sviluppare nelle successive ore stanziate il plot dell’opera seriale. Al cinema non dovrebbe funzionare così. Il citato Padrino – Parte II, pur essendo tecnicamente un sequel, è un film indipendente: può essere visto e capito anche da chi non ha recuperato il capostipite. Così come, sfiorando il paradosso, le singole parti di Kill Bill sono fruibili anche singolarmente (esperienza personale: all’epoca vidi prima Kill Bill 2, non ebbi affatto l’impressione di un’opera monca). Allora qual è la necessità di lasciare la narrazione in sospeso per alcuni grandi successi? Ad esempio, Hunger Games – La ragazza di fuoco (seconda parte della saga) è un ottimo film, penalizzato da un finale eccessivamente aperto: chi ha apprezzato l’opera, per non parlare dei fan della trilogia, sarebbe andato ugualmente a vedere il prosieguo. Per quanto lo scambio di stili e poetica tra grande e piccolo schermo continui ininterrottamente da anni (e ciò è un bene per entrambe le parti) sarebbe bene ricordare che un film è un film, non un episodio di una serie tv.

Detto questo, lunga vita ai sequel: a quelli con un’anima, non a quelli fatti tanto per. E se scopriremo che Trainspotting 2 farà parte di quest’ultima categoria, manderemo una testa di cavallo a Danny Boyle.

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